martedì 23 luglio 2013

figuriamoci il verde



Il senso intrinseco del temine “figuriamoci” incarna, a mio parere,  adeguatamente un tema di questi tempi tanto conclamato quanto disatteso dal progetto urbano, per l’ appunto “il verde”. Ora, è innegabile che da più parti si rivendichi una particolare attenzione al  rispetto ed alla tutela degli spazi a verde, così come in alcuni  casi vi sia da parte di alcuni architetti una rinnovata attenzione alla progettazione di tale componente, anche se ancor oggi, purtroppo, il binomio verde e architettura risente di modelli culturali principalmente ispirati al disegno urbano di fine ottocento diluiti della cultura del verde a standard. Di certo è sempre più difficile negare il bisogno di arricchire le nostre città, e riqualificare  le nostre periferie , con un adeguato apparato arboreo, ciò altro non fosse che per gli  innegabili benefici in termini ecologici ed ambientali che tale presenza, se opportunamente accudita ed irrigata, apporta al luogo. Così come per la valenza di naturalità che ogni forma vegetale esprime, naturalità di cui oggi si sente maggiormente il bisogno forse rispetto al passato quando nel pensiero architettonico, indipendentemente dal clima e dal luogo, il verde era presenza obbligata  in quanto preesistente nei luoghi e non,  come si potrebbe erroneamente esser portati a pensare, presenza voluta o indotta in ragione di una qualche valenza etica od estetica. In un certo senso non temo di affermare, ma questo è un pensiero maligno, che buona parte dell’edilizia che ci circonda, anche se sempre più spesso molti preferiscono chiamarla surrettiziamente architettura, sia stata concepita e realizzata in una seppur inconscia condizione di totale negazione e di sostanziale disinteresse verso il verde, usandolo al più come foglia di fico, e ciò  qualche cosa deve pur significare. Confesso che ai tempi degli studi in architettura, al di là della simpatia verso le persone che la insegnavano, l’arte dei giardini era una materia che oggi definiremmo “di nicchia”, allora un comodo complementare. Da li con il passare del tempo, sebbene abbia mutato il nome e si sia ammantata di una sua plusvalenza progettuale, lo studio e il disegno delle aree a verde resta un qualcosa che si colloca ai margini (a corredo è forse più appropriato) del progetto e non come ragionevolmente dovrebbe e potrebbe essere nel, e con, il progetto stesso. Certo è che oggi in molti: dall’urbanistica alla composizione a scala urbana, dal paesaggio alla land-art, per arrivare ad alcuni aspetti che interessano la tecnologia stessa delle costruzioni, paiono aver riscoperto il verde e con esso un rinnovato interesse per le sue interrelazioni con il  progetto di architettura. Un verde che si pensa, si progetta, si racconta ma non si raffigura quasi mai. In particolar modo raffigurazioni del come è  e del come verrà. D’altro canto disegnare il verde, una realtà mutevole e geometricamente complessa, non è cosa facile. Bisognerebbe in primo luogo capire come ogni albero, ma in realtà ne basterebbero alcuni, si struttura e si sviluppa. Dopodiché, bisognerebbe saper scegliere se  e in quale fase della sua vita vegetativa si trovi e se tale portamento, sia  naturale o, come quasi sempre accade,  indotto e condizionato dall’uomo, in altre parole considerare il verde una presenza viva e non come un semplice ornamento a corredo. Dunque in ciò non vi è alcuna differenza con il passato, quando le foglie di vite dei pergolati ispirarono, si dice a Callimaco, il capitello corinzio o, come agli albori del secolo breve fu un fiorire  di fregi fioriti, plasmati in un imperituro conglomerato cementizio destinati a durare al contrario delle caduche essenze che oggi, ahimè, tanto di moda in quanto riecheggianti quella wilderness di wrigtiana memoria, infestano le nostre città.

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