Il senso intrinseco del temine “figuriamoci” incarna, a mio parere, adeguatamente un tema di questi tempi tanto
conclamato quanto disatteso dal
progetto urbano, per l’ appunto “il verde”. Ora, è innegabile che da più parti
si rivendichi una particolare attenzione al
rispetto ed alla tutela degli spazi a verde, così come in alcuni casi vi sia da parte di alcuni architetti una
rinnovata attenzione alla progettazione di tale componente, anche se ancor
oggi, purtroppo, il binomio verde e
architettura risente di modelli culturali principalmente ispirati al disegno
urbano di fine ottocento diluiti della cultura del verde a standard. Di certo è
sempre più difficile negare il bisogno di arricchire le nostre città, e riqualificare le nostre periferie , con un adeguato
apparato arboreo, ciò altro non fosse che per gli innegabili benefici in termini ecologici ed
ambientali che tale presenza, se
opportunamente accudita ed irrigata, apporta al luogo. Così come per la
valenza di naturalità che ogni forma vegetale esprime, naturalità di cui oggi
si sente maggiormente il bisogno forse rispetto al passato quando nel pensiero
architettonico, indipendentemente dal clima e dal luogo, il verde era presenza
obbligata in quanto preesistente nei
luoghi e non, come si potrebbe
erroneamente esser portati a pensare, presenza voluta o indotta in ragione di
una qualche valenza etica od estetica. In un certo senso non temo di affermare,
ma questo è un pensiero maligno, che
buona parte dell’edilizia che ci circonda, anche se sempre più spesso molti
preferiscono chiamarla surrettiziamente architettura, sia stata concepita e
realizzata in una seppur inconscia condizione di totale negazione e di
sostanziale disinteresse verso il verde, usandolo
al più come foglia di fico, e ciò
qualche cosa deve pur significare. Confesso che ai tempi degli studi in
architettura, al di là della simpatia
verso le persone che la insegnavano, l’arte dei giardini era una materia
che oggi definiremmo “di nicchia”, allora
un comodo complementare. Da li con il passare del tempo, sebbene abbia
mutato il nome e si sia ammantata di una sua plusvalenza progettuale, lo studio
e il disegno delle aree a verde resta un qualcosa che si colloca ai margini (a corredo è forse più appropriato) del
progetto e non come ragionevolmente dovrebbe e potrebbe essere nel, e con, il
progetto stesso. Certo è che oggi in molti: dall’urbanistica alla composizione
a scala urbana, dal paesaggio alla land-art, per arrivare ad alcuni aspetti che
interessano la tecnologia stessa delle costruzioni, paiono aver riscoperto il
verde e con esso un rinnovato interesse per le sue interrelazioni con il progetto di architettura. Un verde che si
pensa, si progetta, si racconta ma non si raffigura quasi mai. In particolar
modo raffigurazioni del come è e del come
verrà. D’altro canto disegnare il verde, una
realtà mutevole e geometricamente complessa, non è cosa facile.
Bisognerebbe in primo luogo capire come ogni albero, ma in realtà ne basterebbero alcuni, si struttura e si sviluppa.
Dopodiché, bisognerebbe saper scegliere se
e in quale fase della sua vita vegetativa si trovi e se tale portamento,
sia naturale o, come quasi sempre accade,
indotto e condizionato dall’uomo, in altre parole considerare il verde
una presenza viva e non come un semplice ornamento a corredo. Dunque in ciò non
vi è alcuna differenza con il passato, quando le foglie di vite dei pergolati
ispirarono, si dice a Callimaco, il
capitello corinzio o, come agli albori del secolo breve fu un fiorire di fregi fioriti, plasmati in un imperituro
conglomerato cementizio destinati a durare al contrario delle caduche essenze che
oggi, ahimè, tanto di moda in quanto riecheggianti quella wilderness di wrigtiana memoria, infestano le
nostre città.
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